Colonialismo in Asia.

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COLONIALISMO IN ASIA

La colonizzazione europea del continente asiatico fu preceduta da rapporti commerciali diretti almeno dal XVI secolo e da una fitta serie di esplorazioni, intraprese fin dal XVIII secolo per assecondare lo sviluppo commerciale delle maggiori potenze: i russi si aprirono la strada attraverso la Siberia per raggiungere l'oceano; il francese L.A. de Bougainville (1766-1768) e il britannico James Cook (1768-1779) si spinsero verso est fino a scoprire gli arcipelaghi del Pacifico e l'Australia; furono avviati intensi traffici con la Cina e l'India. Le nazioni più impegnate nella conquista di nuovi mercati furono le Province unite (Olanda), la Gran Bretagna e la Francia. Per quanto Amsterdam restasse un porto internazionale di straordinaria importanza, gli olandesi cominciarono a essere superati però dai britannici, che giunsero nel XIX secolo a detenere una netta supremazia negli scambi tra l'Europa e l'estremo Oriente. Nel medio Oriente, invece, furono i francesi, con la Compagnia del Levante, ad assumere un ruolo egemonico. La Russia aveva avviato la colonizzazione della Siberia fin dal XVI secolo, da quando Ivan IV il Terribile aveva concesso ai mercanti Stroganov mano libera nell'immensa regione. La colonizzazione aveva portato a frequenti frizioni con la Cina, poi regolate dal trattato di Nercinsk (1689) che prevedeva il riconoscimento del confine russo-cinese sull'Amur. Il Celeste impero andava allora rafforzandosi da un punto di vista burocratico, militare e territoriale sotto la dinamica dinastia Qing (1644-1911), mentre in India comparivano le grandi compagnie commerciali europee: prima gli olandesi, che soppiantarono i portoghesi, togliendo loro Ceylon (1609), poi i britannici che, con la East India Company, si stabilirono a Madras (1639), Bombay (1661) e Calcutta (1696); infine i francesi che, sotto l'impulso di J. B. Colbert, avevano costituito una Compagnia delle Indie orientali insediatasi a Chandernagore e Pondichérry. I portoghesi mantenevano la base di Goa. Al principio del XVIII secolo il collasso dell'impero moghul apriva la via a una trasformazione profonda della presenza europea in India. Nel 1746, la rivalità anglo-francese sfociò nella guerra dei Sette anni (1756-1763), da cui uscì più potente la East India Company. La contemporanea vittoria di Robert Clive sul nawab del Bengala a Plassey (1757) aprì la fase della grande espansione territoriale britannica. Tra il 1795 e il 1815, mentre in Europa infuriavano le guerre napoleoniche, la Gran Bretagna sconfiggeva i marathi, sottraendo loro il controllo di gran parte dell'India centrale; sottraeva Ceylon all'Olanda; occupava Delhi (1803); s'insediava a Malacca e in Tasmania; colonizzava gli arcipelaghi Seychelles, Mauritius, Maldive, Laccadive, Ciagos, straordinarie basi naturali nell'oceano Indiano. La East India Company, che aveva intrapreso una forte espansione verso la Birmania e l'Afghanistan (1839-1842) e aveva sviluppato una propria efficiente organizzazione, fu sciolta e i suoi possedimenti passarono alla corona britannica nel 1858, dopo la sanguinosa rivolta dei sepoys (vedi mutiny). Nel 1876 la regina Vittoria assumeva il titolo di "imperatrice dell'India". La penetrazione francese in Indocina risale alla fine del XVIII secolo, ma solo durante il Secondo impero i sovrani locali consentirono stabili insediamenti nella Cocincina (1862). Un'ulteriore espansione fu attuata tra il 1873 e il 1885 quando, con la forza delle armi, Parigi impose all' Annam il suo protettorato sull'intera regione del Tonchino. Nel 1887 Cocincina, Cambogia, Annam e Tonchino vennero fusi in una sola colonia, denominata Indocina francese, cui si aggiunsero il Laos (1893). Conquistati dai giapponesi nella Seconda guerra mondiale, i possedimenti coloniali indocinesi tornarono nel 1946 solo formalmente al governo di Parigi, a causa della lotta di liberazione dei Viet Minh. La guerra d'Indocina (1946-1954), avviata per recuperare il controllo della colonia, si concluse con la sconfitta francese di Dien Bien Phu (1954) e, con l'abbandono britannico della Malaysia (1957), la definitiva estromissione degli europei dall'Asia sudorientale, per un ventennio circa sostituiti dagli Usa (guerra del Vietnam). Le Indie olandesi (Giava, Sumatra, Borneo meridionale, Celebes, Molucche), recuperate al dominio di Amsterdam dopo le guerre napoleoniche (1815), godettero di un governo relativamente liberale e rappresentativo fin dalla seconda metà del XIX secolo. Nel 1918 fu fondato un parlamento del Consiglio del popolo, olandese e indonesiano, e nel 1937, a dieci anni dalla costituzione di un movimento indipendentista per opera di Mohammed Hatta e Ahmed Sukarno, il governo olandese promise l'indipendenza, ottenuta tuttavia solo nel 1949, dopo quattro anni di guerra. Le Filippine, già dominio spagnolo, furono poste sotto il controllo degli Stati Uniti al termine della guerra ispano-americana (1898) e divennero indipendenti nel 1946. La penetrazione europea in Cina, attuata sistematicamente solo dall'Ottocento, ebbe per protagonisti britannici, russi, olandesi e francesi, intrecciandosi alla grave crisi interna che colpì il despotismo mancese dalla fine del Settecento. La Prima guerra dell'oppio (1839-1842) si concluse tuttavia con l'apertura di cinque porti ai commerci internazionali e la concessione di Hong Kong alla corona britannica. Pochi anni dopo la dinastia Qing, impegnata sul fronte interno dalla rivolta dei taiping (1850-1864), fu costretta a subire un nuovo attacco da parte di Francia e Gran Bretagna (1857-1858 e 1860), che preluse a un'ulteriore fase di espansione coloniale. Nella seconda metà del secolo, il Celeste impero subì una decadenza inesorabile: i russi ottennero territori a nord e in Manciuria, i giapponesi (1894-1895), dopo un conflitto breve e sanguinoso, riuscirono a comprendere la Corea nella propria sfera d'influenza; la Germania e la stessa Italia ebbero basi e privilegi commerciali. L'ingombrante presenza europea scatenò una rivolta a sfondo popolare e xenofobo (rivolta dei boxer, 1898-1901), che segnò la dissoluzione della residua autonomia cinese. Solo in seguito alla caduta della dinastia, alla rivoluzione democratica di Sun Yatsen (1911) e all'instaurazione della repubblica (1912), lo spirito nazionale riprese vigore. Tra i militari nazionalisti del Guomindang e i comunisti scoppiò una guerra civile (1930-1935). Nel 1945, al termine dell'occupazione giapponese, preceduta nel 1931 dall'invasione della Manciuria (vedi Manchukuo) e avviata nel 1937, il nazionalista Chiang Kai-shek, con l'aiuto degli Usa, ristabilì il potere del Guomindang, rovesciato definitivamente nel 1949 dai comunisti, che proclamarono (1° ottobre) la Repubblica popolare cinese.

R. Balzani

K.M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Einaudi, Torino 1958; J. Chesneaux, L'Asia orientale nell'età dell'imperialismo, Einaudi, Torino 1969.

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COLBERT, JEAN-BAPTISTE

(Reims 1619 - Parigi 1683). Politico francese. Nato da una famiglia di grandi mercanti, entrò nel 1645 al servizio del ministro della Guerra Le Tellier e divenne nel 1651 segretario di Mazzarino. Entrato nel 1661 nel consiglio reale, accumulò le cariche di sovrintendente alle costruzioni e manifatture, controllore generale delle finanze, ministro della Casa reale e della Marina. Diede quindi un contributo decisivo al riordino delle finanze pubbliche (recupero di imposte non pagate da parte degli appaltatori, soppressione dei titoli di nobiltà usurpati che comportavano esenzione) e alla buona amministrazione che caratterizzò i primi dieci anni di regno di Luigi XIV. La sua politica economica fu improntata alle idee e alle pratiche mercantiliste (vedi colbertismo), ma cercò anche di sviluppare l'unità economica del regno, facendo costruire dal 1681 il Canal du Midi (dal Mediterraneo all'Atlantico) e rendendo possibile una libera circolazione delle merci nella parte settentrionale della Francia (ma qui le barriere doganali interne restarono in Bretagna, Franca contea e nelle province del Nord). Su sua iniziativa vennero poi create diverse compagnie commerciali monopolistiche (ma nessuna di esse riuscì mai a eguagliare le compagnie inglesi o olandesi), mentre veniva dato un nuovo impulso per la costituzione di basi coloniali (a quelle in Canada e nelle Antille si aggiunsero Madagascar, le isole Bourbon e Pondichérj in India). Condividendo il gusto classicista di Luigi XIV, partecipò alla creazione delle grandi istituzioni culturali della Francia moderna.

SETTE ANNI, GUERRA DEI

(1756-1763). Conflitto che oppose la Gran Bretagna e la Prussia alla Francia, all'Austria e ai loro alleati. Le cause principali del conflitto furono le rivalità anglo-francesi in America del nord e in India e la volontà di Maria Teresa di rientrare in possesso della Slesia, occupata da Federico II di Prussia. Gran Bretagna e Prussia si legarono con l'accordo di Westminster (16 gennaio 1756) con il quale Federico si impegnava a difendere l'Hannover da un eventuale attacco francese. Luigi XV di Francia di fronte alla minaccia di isolamento, firmò con l'Austria il trattato di Versailles (1 maggio 1756) al quale si associarono la zarina Elisabetta, Augusto III re di Polonia ed elettore di Sassonia, e la Svezia. L'invasione della Sassonia da parte di Federico II (agosto 1756) provocò la reazione dei franco-austriaci, vittoriosi sui prussiani in Boemia e sull'esercito anglo-hannoveriano a Kloster Zoven (1757). Tuttavia alla fine del 1757 Federico II sconfisse i francesi a Rossbach e gli austriaci a Leuthen e nel corso del 1758 riuscì faticosamente ad arginare a Zorndorf una nuova offensiva russa. Il 1759 fu però disastroso per i prussiani, che subirono dai russi la sconfitta di Kunersdorf seguita nel 1760 dall'occupazione di Berlino. Solo la morte di Elisabetta di Russia e l'avvento al trono di Pietro III, ammiratore di Federico II, permisero nel 1762 una ripresa prussiana. Questa, unitamente alla stanchezza austriaca e alla fine del contrasto coloniale tra Francia e Inghilterra (guerra franco-indiana) portò alla pace di Hubertusburg (15 febbraio 1763) che lasciava a Federico la Slesia riducendone però le velleità espansionistiche.

MUTINY

(rivolta dei Cipay o dei Sepoy, 1857-1858). Serie di ammutinamenti fra le truppe indigene (spesso affiancati da insurrezioni civili) che sconvolsero l'India settentrionale mettendo in forse per qualche tempo la dominazione britannica in India. L'evento, noto anche come rivolta dei Sepoy dall'appellativo di origine araba (sipahi) usato per le truppe indigene, viene chiamato invece mutiny dalla storiografia britannica. La rivolta, preceduta da atti di insubordinazione in varie città, il primo dei quali a Calcutta nel gennaio del 1857, scoppiò a Meerut (presso Delhi) il 10 maggio 1857, dove alcuni reggimenti indigeni, di religione induista, fucilarono gli ufficiali inglesi e marciarono su Delhi, proclamando la piena restaurazione dell'impero moghul. Si è a lungo sostenuto che le truppe insorgessero per la diceria che il grasso delle confezioni delle cartucce, che si dovevano strappare con i denti, fosse bovino, obbligando gli induisti a un atto sacrilego (mentre per le truppe musulmane il grasso usato sarebbe stato di maiale, per loro immondo). In realtà le motivazioni profonde dell'insurrezione e del vasto (anche se discontinuo) appoggio popolare, erano ben altre. Vi confluirono l'insofferenza per la rigidissima disciplina (con continue punizioni corporali) imposta dagli ufficiali britannici alle truppe di colore e le numerose discriminazioni e umiliazioni, spesso tese a colpire aspetti e comportamenti religiosi dei sottoposti che si ritenevano incompatibili con la civiltà europea, secondo una politica di anglicizzazione della cultura e delle società indiane, inaugurata già dal governatorato di William Bentinck e ripresa con grande accanimento e ottusità da Lord Dalhousie (1848-1856). Ma vi agirono anche la drammatica pauperizzazione di vasti settori artigianali, specie tessili, colpiti a morte dalla valanga delle importazioni dei prodotti di Manchester, assieme all'alterigia sbrigativa con cui i britannici, ormai dominatori assoluti dell'India in termini militari, si impadronivano, con evidenti abusi, di entità politiche sovrane, come nel caso, proprio nel 1857, dello spossessamento dello stato dell'Oudh. La rivolta si estese a macchia d'olio, comportando massacri di ufficiali e di civili europei a Cawnpore, Lucknow e in altri centri della media valle del Gange. Ne rimase praticamente esente il Bengala, mentre insorsero parti di territori già maratha, sotto la guida di Nana Sahib, il Gwalior e il Jhansi. Qui la ex-maharani (spossessata nel 1853) iniziò una lunga guerriglia antibritannica, cadendo infine in combattimento. Nel complesso tuttavia gli insorti mancarono completamente di coordinamento e di fini comuni, mentre il vecchio imperatore moghul Bahadur Shah, nonostante la ripresa formale delle proprie prerogative, non aveva né risorse né appoggi per sostenere nei fatti le sue aspirazioni. La controffensiva britannica fu abbastanza rapida, ma costellata da sanguinosi eccessi contro i civili, specie nell'Oudh e nella presa di Delhi. Entro il 1858 quasi tutta la zona era pacificata. Il governo di Londra, ritenendo ormai obsoleta la vecchia struttura di potere della East India Company, decise allora di assumere in via diretta il controllo dei possedimenti dell'India.

C. Zanier

VIET MINH

Abbreviazione di Viet Nam Doc Lap Dong Minh Hoi (Lega per l'indipendenza del Vietnam), movimento nazionalista politico-militare vietnamita fondato nel maggio 1941 da Ho Chi Minh durante il suo esilio in Cina. Era una organizzazione unitaria con svariate componenti politiche, ma di fatto egemonizzata dai comunisti del Laodong (Partito comunista). Sotto la direzione di Ho Chi Minh e del generale Giap, il Viet Minh organizzò la resistenza all'occupazione giapponese dell'Indocina e, alla resa delle forze nipponiche nell'agosto 1945, assunse il controllo di Hanoi dove venne proclamata, il 2 settembre 1945, l'indipendenza del Vietnam. La Francia non la riconobbe dando così inizio nel 1946 alla guerra d'Indocina, durante la quale il Viet Minh guidò la vittoriosa resistenza contro le forze francesi e i loro alleati. Sciolto nel 1951, fu sostituito da un nuovo fronte, il Lien Viet.

VIETNAM, GUERRA DEL

(1960-1975). Conflitto che oppose il regime sudvietnamita (Repubblica del Vietnam), sostenuto dagli Stati Uniti e da alcuni dei suoi alleati, al Fronte nazionale di liberazione (Fnl), ispirato dai comunisti e sostenuto dalla Repubblica democratica del Vietnam del nord (Rdvn).

LA GUERRIGLIA E L'INTERVENTO USA. Alla fine della guerra d'Indocina (1946-1954) fu stabilita dalla conferenza di Ginevra (1954) una linea provvisoria di demarcazione al diciassettesimo parallelo tra la zona controllata dalle truppe del Viet Minh al nord e la zona sotto la nominale sovranità dell'ex imperatore Bao Dai al sud, in attesa di elezioni generali in tutto il paese per la riunificazione. Questa linea divenne di fatto confine tra due stati differenti. Al nord la Rdvn adottò un modello di tipo socialista, mentre al sud, sotto Ngo Dinh Diem, che aveva abbattuto Bao Dai, sorse un governo legato agli Usa (i quali non avevano sottoscritto gli accordi di Ginevra). Il regime autoritario sudvietnamita provocò la nascita della resistenza armata. Nel dicembre 1960 venne fondato l'Fnl, costituito da quasi tutti i gruppi di opposizione, conosciuti popolarmente come Vietcong. La guerriglia nel Vietnam meridionale fu fronteggiata con un crescente intervento degli Stati Uniti, che aumentarono notevolmente il numero dei "consiglieri militari" sin dal 1961, sotto la presidenza Kennedy. La guerriglia si estese sempre di più, e l'eliminazione di Ngo Dinh Diem (1963) non garantì agli Usa alleati locali meno impopolari (Nguyen Van Thieu, Nguyen Cao Ky). Nell'agosto del 1964, dopo aver provocato l'incidente del golfo del Tonchino, gli Usa iniziarono sistematici bombardamenti aerei sul Vietnam settentrionale. La Rdvn si rivolse, per forniture militari ed economiche, alla Cina popolare e all'Urss, bilanciando, con estrema abilità, la propria posizione tra i due paesi, divisi da contrasti ideologici e diplomatici. Fu tuttavia l'Urss a fornire l'aiuto più consistente e decisivo dopo il rapido mutamento dei rapporti Usa-Cina dal 1972 e l'intiepidimento cinese verso Hanoi. Alla metà degli anni sessanta la guerra si intensificò e il contingente americano raggiunse gli oltre 500.000 effettivi, che restavano però in Vietnam per un breve periodo, così che furono milioni i giovani americani a sperimentare la "sporca guerra", ai quali venivano ormai affidati compiti più estesi, dato che solo poche unità del regime erano affidabili e il loro tasso di diserzione era altissimo. Gli Usa premevano perché i loro alleati in Asia, in Oceania e in Europa fornissero concreti aiuti in modo da ridurre la crescente opposizione in patria a una guerra che mieteva decine di migliaia di vittime. Ma i contingenti alleati (di Filippine, Australia, Nuova Zelanda e pochi altri) erano simbolici, con la sola eccezione del forte corpo di spedizione sudcoreano.

DAVIDE BATTE GOLIA. Un obiettivo strategico Usa era quello di bloccare le infiltrazioni di armi e militari dal nord al sud, ma così facendo le forze statunitensi rischiarono più volte di trovarsi nella situazione in cui si erano trovati nel 1954 i francesi a Dien Bien Phu: asserragliati e bloccati in basi munitissime contro le quali i Vietcong e i nordvietnamiti, sotto l'abile direzione strategica del generale Giap, potevano concentrare i propri attacchi. Solo grazie all'enorme superiorità aerea Usa tali situazioni vennero sbloccate, risultando però costosissime in termini di perdite umane, mentre la concentrazione di forze impediva un capillare controllo del territorio. Nelle campagne venne adottata dagli Usa una strategia volta a "pacificare" le aree in cui maggiore era la presenza della guerriglia. Furono costituiti villaggi "strategici", cioè controllati strettamente dalle forze governative, mentre si procedette a bombardamenti indiscriminati delle zone "libere" e alla eliminazione sistematica dei dirigenti dell'Fnl (Programma Phoenix). Tuttavia la guerriglia non fu piegata, come dimostrò l'offensiva del Tet (1968), quando i rovesci del regime di Saigon e degli Stati Uniti non furono tanto militari quanto, soprattutto, psicologici e politici: crebbe sempre di più negli Usa e nel mondo l'opposizione alla guerra, al punto che il presidente L.B. Johnson rinunciò a ripresentarsi alle elezioni presidenziali. Nel 1969, mentre venivano avviate trattative di pace a Parigi, il nuovo presidente Richard Nixon, respinte le proposte dei comandi militari per un ulteriore aumento del contingente Usa (già più di un terzo di tutte le forze americane di terra e di mare) annunciò l'inizio del disimpegno americano (vietnamizzazione). Tuttavia le forze che premevano per una soluzione militare della guerra (ormai diventata un colossale business) erano molto potenti: con il pretesto che la Cambogia, benché neutrale, non era in grado di impedire le infiltrazioni vietnamite lungo il sentiero di Ho Chi Minh, il piccolo paese venne selvaggiamente bombardato dai B52 e invaso nel 1970 da truppe Usa e sudvietnamite mentre venivano più volte ripresi i bombardamenti a tappeto delle città nordvietnamite. Solo all'inizio del 1973, dopo quasi cinque anni di trattative, fu firmato a Parigi un accordo tra Rdvn, governo rivoluzionario provvisorio (costituito nel 1969 come emanazione dell'Fnl), Stati Uniti e Repubblica del Vietnam per il cessate il fuoco. I combattimenti proseguirono tuttavia fino alla primavera del 1975, quando le forze nordvietnamite e i Vietcong giunsero a impadronirsi degli altipiani del Vietnam centrale per poi scatenare l'offensiva che fece cadere in poche settimane il regime di Saigon e portò all'unificazione formale del paese. Il Vietnam uscì stremato dalla guerra, con danni materiali, umani e ambientali immensi: sul paese, grande quanto l'Italia, erano stati scaricati molti più esplosivi di quelli usati su tutti i fronti e da tutti i belligeranti nel corso della Seconda guerra mondiale, oltre a un'enorme quantità di defolianti chimici. Pesò soprattutto, nel lungo periodo, l'aver dovuto gestire così a lungo una rigidissima e autoritaria economia di guerra, dalla quale non si seppe uscire per più di un decennio dopo la conclusione delle ostilità. Negli stessi Usa la guerra, l'unica persa nella loro storia, con 60.000 morti e oltre 100.000 mutilati, rimase come una ferita morale e psicologica per un'intera generazione, oltre a rappresentare un cruciale evento militare ed economico che ne ridimensionò il ruolo planetario.

F. Montessoro

W.J. Duiker, The Communist Road to Power in Vietnam, Westview Press, Boulder 1981; G. Kolko, Anatomy of a War, Pantheon Books, New York 1985.

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OPPIO, GUERRE DELL'

(1839-1842 e 1856-1860). Due guerre condotte da britannici e francesi contro la Cina dei Qing nel XIX secolo, che avevano al centro la questione del contrabbando dell'oppio (monopolio dell'oppio). Favorirono la spinta per l'apertura commerciale e diplomatica della Cina e, nel caso specifico della seconda, anche le rivalità tra potenze che cercavano di crearvi una propria "sfera d'influenza". La prima (1839-1842) scoppiò in seguito ai drastici provvedimenti anticontrabbando presi dall'inviato speciale dell'imperatore, il commissario Lin Zexu (confisca e distruzione di ingenti quantitativi di oppio illegalmente detenuti dai mercanti, quasi tutti inglesi, a Canton) e alla susseguente richiesta, respinta, di versare una cauzione a garanzia di futuri coinvolgimenti nel contrabbando, pena l'esclusione dai commerci con la Cina. Dapprima si combatté intorno a Canton, poi (1841-1842) le navi inglesi risalirono lo Yangzi e minacciarono Nanchino. La resistenza cinese, debole, scoordinata e male armata, fu travolta: la Cina, con i trattati di Nanchino (1842), fu costretta ad aprire cinque porti al commercio internazionale e a cedere Hong Kong alla Gran Bretagna. L'oppio era ufficialmente ignorato, ma il contrabbando si estese e dilagò. La seconda guerra dell'oppio (1856-1860) fu condotta da Gran Bretagna e Francia con l'appoggio diplomatico di Russia e Usa. I pretesti furono, per la Francia, l'esecuzione di un missionario e, per la Gran Bretagna, il fermo di un battello cinese (l'Arrow) che compiva operazioni di contrabbando sotto bandiera britannica. Lo scopo reale era quello di ampliare la penetrazione commerciale in Cina e ottenere speciali concessioni diplomatiche, economiche e per le attività missionarie. Gli anglo-francesi presero Canton (dicembre 1857) e i forti di Dagu (maggio 1858) nei pressi di Tianjin, via di accesso a Pechino. I cinesi cedettero e sottoscrissero il trattato di Tianjin (1858), con cui vennero aperti altri dieci porti e si legalizzò il commercio dell'oppio, oltre a dare speciali privilegi ai missionari francesi. Ma la pretesa anglo-franco-americana di forzare il passo, in armi, a Dagu, bloccò la ratifica dei trattati e portò a un pesante scacco militare per gli occidentali. Questi, riprese le ostilità, avanzarono su Pechino (agosto 1860) e saccheggiarono e distrussero il palazzo imperiale. Ne seguì la convenzione di Pechino (1860) che pose fine alla guerra con molte altre concessioni agli occidentali, tra cui il diritto per i rappresentanti diplomatici di risiedere a Pechino. La debole reazione dei Qing era il riflesso della profonda crisi interna della Cina imperiale, ma era in parte da ascrivere alla molto maggior preoccupazione delle classi dirigenti per la rivolta dei taiping (1850-1864), che le portò ad accettare, sollecitandolo, l'aiuto militare anglo-francese per reprimerla ancor prima che la guerra si concludesse. Questo atteggiamento e l'inettitudine mostrata in entrambe le guerre dai comandanti mancesi fecero crollare il residuo prestigio della dinastia e ridiedero vigore a sentimenti nazionalistici antimancesi e a spinte xenofobe di cui si nutrì l'opposizione politica nel cinquantennio successivo.

C. Zanier

TAIPING, RIVOLTA DEI

(1850-1864). Una delle più estese e radicali rivolte contadine nella storia della Cina imperiale. Mise in gravissime difficoltà la dinastia Qing e ne sconvolse l'assetto istituzionale, militare ed economico, aprendo una lunga crisi che si concluse solo con la proclamazione della Repubblica popolare cinese nel 1949.

LE CAUSE PROFONDE E I FINI. Fu causata dalle tensioni sociali accumulate per l'ininterrotta crescita demografica del paese sin dall'epoca Ming, dalla quale derivò un maggiore sfruttamento produttivo delle terre, ma anche l'indebolimento contrattuale dei contadini, la comparsa di nuovi ceti benestanti e la caduta di prestigio dei funzionari imperiali. Erano rifiorite le società segrete e, dalla seconda metà del Settecento, erano comparsi banditismo, rivolte locali e carestie. L'umiliante sconfitta nella Prima guerra dell'oppio (1839-1842) e l'estesa corruzione morale e materiale portata dall'oppio fecero scoccare la scintilla. Nel 1847 Hong Xiuquan, un intellettuale di provincia bocciato agli esami imperiali e convertito al cristianesimo, creò una "società degli adoratori di Dio" e si inserì negli estesi disordini sociali della provincia meridionale del Guangxi, provocati dalle rivendicazioni degli hakka (antichi immigrati del nord della Cina, emarginati dagli indigeni come pure dalle successive immigrazioni cinesi), dei contadini e dei carbonari, portatori, battellieri e piccoli artigiani colpiti dalla rivoluzione commerciale del trattato di Nanchino del 1842. Alla testa di una banda armata, Hong si affermò come leader politico e militare tra il 1849 e il 1850. Nel gennaio del 1851 proclamò l'avvento del "Regno celeste della pace universale" (Taiping Tianguo, da cui taiping) in cui univa elementi di cristianesimo, affermando di essere il fratello minore di Gesù, ad antiche tradizioni di millenarismo e di comunismo primitivo tipiche di molte società segrete. Il fine era di abbattere i Qing, far sparire confucianesimo e buddhismo, eliminare il potere dei funzionari e dei proprietari terrieri, distribuire le terre a tutti in una società di eguali.

REPRESSIONE E MODERNIZZAZIONE. L'esercito taiping si diresse verso lo Yangzi Jiang passando di vittoria in vittoria e ingrossandosi e conquistò la città di Wuhan nel gennaio del 1853. Il 19 marzo le truppe taiping, salite a 500.000 effettivi, presero l'antica Nanchino che, ribattezzata Tianjing, ne divenne la capitale sino al 1864 sotto la guida di Hong, proclamatosi "sovrano celeste". Senza badare né a un organico collegamento con l'estesa rivolta dei nian (in atto da tempo al nord) né alle vie di rifornimento, un corpo militare venne spedito contro Pechino ma fu annientato nello Shandong nel 1855. I taiping mantennero un certo controllo della media valle dello Yangzi Jiang, da Nanchino a Wuhan, assediando due volte Shanghai e prendendo Hangzhou (nel 1860 e dal 1861 al 1864) e Suzhou (dal 1860 al 1863), con campagne dagli effetti devastanti sull'economia di una vasta zona, soprattutto dopo che gli imperiali, appoggiati dagli occidentali, ebbero proceduto alla distruzione sistematica dei depositi di grano. I taiping avevano sperato che gli europei potessero sostenere un regime "cristiano", ma, dopo il primo entusiasmo, questi si erano fatti ostili per l'intransigente opposizione dei taiping al contrabbando dell'oppio. Già nel corso della Seconda guerra dell'oppio (1856-1860), quindi, gli europei, pur in conflitto col governo imperiale, ne appoggiarono l'azione repressiva rifornendolo di armi e sostenendo vari corpi mercenari, tra cui la famigerata Ever Victorious Army guidata prima dallo statunitense Ward, poi dall'avventuriero britannico C.G. Gordon. D'altronde, gli insorti avevano mantenuto solo in piccola parte i loro programmi rivoluzionari: la distribuzione delle terre fu scarsa e la ripartizione delle risorse privilegiò subito il vertice che si era formato intorno a Hong, benché fossero state abolite molte usanze feudali e per prima la discriminazione tra i sessi, con molti reparti femminili inseriti a pieno titolo nell'esercito. Sistematica fu la lotta all'uso e al commercio dell'oppio e drastica l'opposizione alle vecchie gerarchie di potere e all'ideologia confuciana ormai sclerotizzata. Intervennero però ben presto sanguinosi scontri di potere fra gli stessi taiping: uno di questi portò, sul finire del 1856, all'allontanamento del più brillante dei capi militari di Hong, Shi Dakai, il quale, alla testa di un grosso contingente, combatté a lungo contro i Qing cercando di crearsi una propria base rivoluzionaria, ma fu sconfitto e giustiziato nelle gole del fiume Tatu, ai bordi dello Sichuan, nel giugno del 1863. La repressione Qing implicò una notevole riorganizzazione e modernizzazione militare, dovuta soprattutto al generale cinese Zeng Guofan, che dal 1860 ebbe il supremo comando militare delle operazioni. Egli organizzò le sue armate su base provinciale, facendo leva sui reclutamenti dei latifondisti locali. L'esempio fu seguito da altri, come Li Hongzhang, gettando così le basi su cui si svilupparono in seguito i signori della guerra. La controffensiva finale iniziò nel 1863, quando venne circondata Nanchino, gettata nel 1864 in un bagno di sangue in cui scomparì anche Hong, forse suicida. Sacche di resistenza si ebbero nel sud, sino al 1866, e nel nord, dove transfughi taiping si erano uniti ai resti dei nian, sino al 1868, mentre altri taiping sconfinarono in Vietnam. Le devastazioni portate dal lungo conflitto furono immense: alcuni distretti raggiunsero i livelli di popolazione di prima della rivolta solo in pieno XX secolo. Due delle principali fonti di esportazione per la Cina, il tè e la seta, prodotti nelle aree più colpite, si ridussero. La durissima repressione aveva scavato un solco incolmabile tra grandi proprietari terrieri e funzionari confuciani da un lato e la gran parte della popolazione rurale e urbana dall'altro. Nell'immaginario popolare, nella tradizione orale e nella leggenda, l'epopea dei taiping rimase vivissima e costituì la base, anche nelle storie familiari di molti dirigenti, per i movimenti rivoluzionari successivi.

C. Zanier

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